Dio esiste e vive a Bruxelles è un film del 2015 diretto da Jaco Van Dormael, che parte da un’idea tanto assurda quanto geniale: e se Dio fosse un uomo burbero, pigro e sadico, che vive in un normalissimo appartamento a Bruxelles?
Lontano dai toni solenni e dogmatici della religione tradizionale, il film sceglie la via della satira e della poesia, proponendo una riflessione leggera ma profonda sulla libertà, sul destino e sulla fede.
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Trama: una ribellione figlia della divinità
Nel film, Dio (Benoît Poelvoorde) è tutt’altro che amorevole: governa il mondo da un vecchio computer, divertendosi a complicare la vita degli uomini. Ma la figlia Ea, stanca della sua tirannia domestica e cosmica, decide di ribellarsi. Ruba i dati del “destino” (le date di morte di tutti gli esseri umani) e li invia via SMS al mondo intero, gettando il caos.
Da qui parte in un moderno viaggio iniziatico per raccogliere sei nuovi apostoli, ognuno dei quali rappresenta una diversa forma di umanità, di dolore, di amore.
Un mix di surreale, spiritualità e umorismo nero
Un’estetica che ricorda Amélie… con un tocco più graffiante
Dal punto di vista visivo e narrativo, Dio esiste e vive a Bruxelles richiama il cinema di Jean-Pierre Jeunet (soprattutto Il favoloso mondo di Amélie), con una regia ricca di dettagli, una voce narrante fiabesca e personaggi grotteschi ma poetici.
Allo stesso tempo, però, il film non ha paura di affrontare temi esistenziali con sferzante ironia: la morte, il libero arbitrio, il trauma, la sessualità, la solitudine.
Gli apostoli: l’umanità nei suoi frammenti più teneri e assurdi
I sei apostoli di Ea sono il cuore narrativo del film: donne e uomini qualunque, ognuno segnato da una ferita diversa, che attraverso il contatto con Ea riscoprono una propria forma di salvezza personale. Il messaggio è chiaro: non serve un Dio vendicativo, ma la possibilità di scegliere, di amare e di cambiare.
Un film che divide, ma che non lascia indifferenti
Non tutti apprezzeranno lo stile surreale o l’umorismo dissacrante, e alcuni potrebbero trovare il messaggio troppo semplicistico o provocatorio. Ma è proprio questa libertà, questa leggerezza nel parlare di cose profonde, a rendere il film unico.
Non è una lezione di teologia, ma un inno alla libertà di essere umani – fragili, strani, imperfetti.