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La memoria dell’assassino, la recensione: Michael Keaton e un noir poco lucido

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Un noir che perde lucidità

Un killer sulla via del tramonto secondo Michael Keaton: “La memoria dell’assassino”, tra svolte e piani fin troppo intricati, perde la lucidità necessaria in grado di tenere l’interessante punto di partenza. Dal 4 luglio al cinema e ora disponibile su Altadefinizione in 2k. Michael Keaton e la totale negazione del genere. Uno spunto interessante perché l’attore – inspiegabilmente uno dei più sottovalutati della sua epoca – a 70 anni e oltre, ha deciso di tornare a fare (anche) il regista, dopo il suo debutto, “The Merry Gentleman”, uscito nel lontano 2008. Torna dietro la macchina da presa probabilmente più consapevole, e sicuramente reinventato dopo una seconda parte di carriera lastricata da grandi film e grandi interpretazioni. Basti pensare a “Birdman”, a “Il caso Spotlight” o al “Il processo ai Chicago 7”.

Un thriller destrutturato

E dunque, nel dirigere “La memoria dell’assassino”, parte dall’archetipo del thriller fumoso, virando verso il noir notturno e, poi, puntando verso un ribaltamento del fronte, facendo prendere alla storia – e al personaggio che interpreta – una piega che in spaccherà la storia. Potremmo utilizzare il termine ‘destrutturato’ per definire al meglio “La memoria dell’assassino”. Un termine abusato ma puntuale e preciso, almeno in questo caso: Keaton, su sceneggiatura di Gregory Poirier (non proprio la migliore delle penne), rivede l’archetipo del killer in chiave minimalista e ammaccata (nulla di nuovo, ma la perdita del controllo dell’assassino ha una sua efficacia), tenendo però stretto a sé un machismo che forse non aiuta, e che anzi risulta stridente e superato. E non aiuta nemmeno la schematicità inafferrabile di uno script che risulta incredibilmente (e inutilmente) arzigogolato.

La memoria dell’assassino, i dubbi di Michael Keaton

Che poi “La memoria dell’assassino” inizia anche bene, suggerendo un’atmosfera alla James Ellroy (in fondo, siamo a Los Angeles). Due tizi, che scopriremo essere John Knox (Keaton) e il compare Thomas (Ray McKinnon), discutono del più e del meno, mentre aspettano di cenare in un diner. Oltre all’immancabile tazza di caffè, nello scambio di battute, c’è qualcosa di strano: capiamo che i due sono dei sicari su commissione (indirizzati da Crane, interpretato da Al Pacino), e capiamo pure che John sembra avere qualche problema di memoria. L’indomani, Knox, che ha alle spalle una carriera nelle forze speciali, scopre di soffrire di una fulminante e irreversibile forma di demenza. Un enorme problema, che diventa gigantesco se il tuo mestiere è quello di uccidere le persone. Non resta che prendere l’unica decisione possibile: avviarsi verso la pensione. All’improvviso, e in modo estremamente teatrale, torna nella sua vita il figlio Miles (James Marsden) che chiede disperato il suo aiuto: ha ucciso l’uomo che ha messo incinta sua figlia minorenne. Knox, che porta con sé l’inseparabile quaderno dove segna ogni cosa, proverà a risolvere la situazione. In un modo decisamente inconsueto.

Un finale arzigogolato e un machismo retorico

Ciò che potrebbe mancare in “La memoria dell’assassino” è la coesione da azione e reazione, tra intenzione e risultato. Alla base, c’è la voglia di Knox di farla finita con la vita del sicario, cercando un modo per uscire di scena. È innegabile quanto lo spunto sia efficace nel delineare le personalità dei protagonisti (o meglio, solo di John Knox, in quanto le altre figure sembrano quasi di comodo), ma l’irruenza della svolta centrale, che tra l’altro si unisce ad una svolta iniziale, è talmente brusca da risultare quasi paradossale, incongruente e, addirittura, superflua. Ulteriore punto di vista, quello relativo alla struttura di una regia che predilige l’umore classico, asettico, che calca la verbosità ragionata della narrativa. Una classicità che sembra quasi non appartenere più al cinema contemporaneo, e che Keaton prova ad applicare ad una vicenda teoricamente dolente, ma forse troppo impacchettata per arrivare ad una coinvolgente emozione. Il taglio del montaggio, tra l’altro, divide il film in sette blocchi (che equivalgono alle settimane percorse da Knox), che interrompono (mediante dissolvenze sfumate al nero) il ritmo e il partecipazione, aggrappandosi ad un’ulteriore giravolta che anticipa il fin troppo intricato finale con lo scopo di enfatizzare un malatissimo rapporto padre e figlio, sottolineato da una mascolinità e da una retorica spicciola. Qui, “La memoria dell’assassino”, sconfina ed esagera, perdendo definitivamente la lucidità con cui aveva iniziato. Proprio come lo sperduto protagonista di Michael Keaton.

Conclusioni

Non amiamo troppo la parola destrutturato, eppure è adatta a “La memoria dell’assassino” diretto e interpretato da Michael Keaton. La figura del killer viene messa in discussione da una malattia degenerante, tuttavia lo spunto, unito ad una buona atmosfera di partenza, sembra non reggere un plot che si allunga attraverso numerose svolte che difficilmente riescono a comunicare, risultando forzate in un finale che viene espanso in un piano assurdamente esagerato.